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Zona Franca ore 12


Mi sveglio alle 9.30. Faccio colazione con la solita fetta di pane con miele e bicchiere di caffè. Mi aspetta un colloquio di lavoro in zona Franca alle 11. Mi faccio due calcoli, controllo la cartina e parto. Linea rossa fino a Bellvitge e poi il 110. Autobus fantasma. Non nel senso che non c’è, ma nel senso che non si ferma. Un signore di mezz’età mi aveva avvertito tartagliando: quando lo vedi arrivare, alza la mano. Ma devo fare i conti con le mie convinzioni. Da qualche mese ho deciso di non utilizzare più occhiali nè lenti a contatto, il numero dell’autobus lo vedo all’incirca a una decina di metri. Non si ferma, ripeto. Inseguo l’autobus che mi ignora fermo al semaforo. Riparte di scatto e mi lascia solitario e meditabondo davanti a una ennesima rotonda con svincolo incorporato. Guardo l’orologio: le 11. Avrei già dovuto essere sul luogo del colloquio. M’innervosisco, mi metto una sigaretta in bocca ma non trovo l’accendino. E’ troppo.

Mi avvio a piedi. Vado a naso. La zona Franca a Barcellona è il tipico quartiere industrial-portuale in cui vai solo per comprare droga. Squallido paesaggio, con i suoi recinti di magazzini sproporzionati e le filiali delle multinalzionali come cattedrali nel deserto.

Attraverso la strada di corsa cercando un passante a cui chiedere informazioni. Lo trovo in un tipo di mezz’età fermo ad un altro semaforo con il suo scoooter impolverato.

“Scusi, sa dov’è la fermata del 110? Devo andare all’Avenida de los puertos de Europa, è molto lontano?”
Si sofferma gaurdandomi da dietro la visiera trasparente del casco. Osserva la mia camicia col colletto e la ventiquattrore nera che ho in mano.
“Guarda, devi andare laggiù, vedi quel palazzo?” e mi indica con la mano imbrilantata da un anello d’oro (finto o vero non ha importanza) un punto impreciso sull’orizzonte oltre centomila svincoli.
“Ma quanto ci metterò a piedi? Ho fretta, ho un colloquio di lavoro e sono già in ritardo”.

Avrei dovuto capirlo subito: l’occhio pensieroso cominciava a tramare qualcosa, l’alcool che gli puzzava di fiato.
“Vabbè, puoi prendere un taxi per arrivare fino a lá, al massimo ti chiederà quindici euro”.
L’aveva già sparata grossa, era solo l’assaggio. Ma io ero in stato confuzionale, continuavo a ripetere di essere in ritardo, aspettavo una conferma, una indicazione chiara.
“Se avevo un casco in più ti accompagnavo io”. Il piano cominciava a delinearsi.
Mi ero ormai deciso ad abbandonare la conversazione, ma la maniera in cui stava portando avanti la sceneggiatura mi intrigava.
“Dai, piuttosto di andare col taxi ti accompagno io.
Tieni la testa abbassata, così nel caso passa la polizia non ci vede. Comunque qua la polizia non c’è mai”:
Aveva fatto tutto da solo. Ero stanco di camminare e aspettare. Salgo sullo scooter e partiamo. Dopo qualche rotonda prendiamo una larga strada rettilinea.

Il conduttore del veicolo, tassista improvvisato, mi intrattiene con una prosopopea da esperto del quartiere.
“Vedi, io qua conosco a tutti. Però è chiaro che se ci fermano la multa la paghi tu. Comunque tu digli che il casco ce l’hanno rubato al bar. Perchè era quello buono”.
Data l’improvvisazione (o almeno quella che io ritenevo tale) a cui aveva dovuto ricorrere per convincermi a salire sul motorino, adesso comincia a rifinire i dettagli.
Tanto per prendere più confidenza, non si esenta nemmeno dall’addurre dettagli tecnici della guida: “Guarda, qui all’incrocio ci mettiamo tra i camion, cosí se passa la pattuglia non ci vedono”. Da professionista della retorica fa ricorso anche alla tecnica della captatio benevolentiae: “Ma che tu sei salito già in moto? Eh si lo dicevo io, perchè ti muovi bene e non mi fai sbandare”.
Addirittura arriva a scusarsi: “ Guarda più di ottanta questo non fa, vedi, vedi” mi indica il contachilometri sottosforzo.
Arriviamo ad una specie di casello, non saprei dire se per entrare direttamente nella zona portuale o altro. Tutto comincia a sembrarmi un pò assurdo. Che io vada senza casco sembra essere irrilevante per il casellante.
“Io qua conosco tutti, ci provassero a dirmi qualcosa”, mi rassicura il tassista.
“Mi hai detto il numero 100 vero? Allora deve essere lá”. Gira di centottanta gradi e ritorna al casello. Chiama al citofono e gli rispondono, indicando l’esatta ubicazione del posto che cercavo.

Da assurda la situazione è diventata ridicola.

Dopo un’altra rotonda con aiuola stranamente ben curata ci ritroviamo davanti ad un imponente parallelepipedo a vetri.
Faccio per scendere: “Grazie, non so, se mi aspetti ti offro un caffè”.
L’affabilità di un momento prima lascia il posto ad una repentina aggressività.
“Ma che caffè, dammi quindici euro”.
“Ma, ma” balbettò io, sempre più confuso da quell’individuo avvinazzato.
“Io ti ho portato qua in cinque minuti, col taxi ci mettevi di più. Dammi sti quindici euro”.
Non ne posso più. Penso di scappare ma quel deserto di strade che mi circonda mi ci fa ripensare. Comincio ad avere un certo timore. Tiro fuori il portafoglio. Sapevo che vista la situazione finanziaria mi era rimasto solo un biglietto di piccolo taglio. Tiro fuori i dieci euro.
Velocemente il biglietto si volatilizza. “Sei un taccagno, ti ho detto quindici euro”, incalza il tassista abusivo con la rinomata tecnica del “carico a coppe”.
“Senti io sto cercando lavoro, ho solo questi!”, ribatto quasi disperato cominciando ad avviarmi verso l’ingresso del palazzone. Sento alle spalle il truffatore borbottare e riavviare il motorinaccio. Fine della sceneggiata.

Sul colloquoio sorvolerei. La ragazza menpauer mi offre un lavoro di cameriere in Zona Franca.
“Ci penserò” le rispondo senza far menzione della surreale mattinata.

Sul referto che la selezionatrice mi ha scritto appare:

“Chico muy agradable pero tímido. Busca trabajo para sobrevivir” (“Ragazzo molto gradevole ma timido. Cerca lavoro per sopravvivere”).

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